In principio erat Verbum


Impopolare che sia l’opinione, preme dire che già il termine è, per certi versi, guasto. “Come out of the closet” (letteralmente, “venir fuori dall’armadio”) da cui è mutuato il termine coming-out presuppone l’idea di segreto, di nascondimento. Ma le parole sono lo strumento con cui si dà forma alla realtà e l’omosessualità, da sempre, è inquadrata come un buio straordinario da vivere lontano dalla luce del sole: lo provano i film, i romanzi, le storie. Semplicemente, lo dice la vita. E tacciano i cittadini di Utopia che, con i prosciutti sugli occhi rispetto al mondo reale, ancora sostengono che dichiarare la propria omosessualità è inutile e che i gay non sono discriminati, insultati (se va bene), e ancora aggrediti, uccisi se va male (basti ricordare Maria Paola Gaglianone, di soli 20 anni).
Per questo, oggi che è il coming out day, va sottolineato che dichiararsi gay è una cosa seria, due parole “Sono gay” rivoluzionarie come solo le parole sanno esserlo. Ma no, non si parla di Garko e il suo “segreto di pulcinella”. La storia del movimento omosessuale è fatta di coraggio. Penso a Karl Ulrichs, il primo della storia: è il 1867, e di fronte un’adunata di giuristi tedeschi, parla contro lo statuto anti-sodomia prussiamo. A Oscar Wilde, che nell’Inghilterra di fine 800 è incarcerato solo perché ama il giovane Bosie. E ancora, ad Harvey Milk, il primo politico americano apertamente gay ucciso nel 1976 per la sua lotta in favore dei diritti civili; alla campionessa di tennis Martina Navrátilová che si dichiara lesbica negli anni ’80 e infrange il tabù nello sport; alla più recente grazia della pallavolista Paola Egonu.
Ogni coming out dice “noi ci siamo”: a chi vorrebbe gli omosessuali chiusi al buio nell’armadio, ma soprattutto a ogni ragazzo o ragazza di provincia o di città che aspetta un segnale per non sentirsi più sbagliato e decidere di lottare per trovare il proprio posto nel mondo.
corsivo apparso sul Fatto Quotidiano di domenica 11 ottobre
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